Loxias-Colloques |  17. Arrigo Boito cent ans après 

Enzo Neppi  : 

Quando il « colore » ci si mette di mezzo : dalla Donna di picche di Puškin all’Alfier nero di Arrigo Boito

Résumé

L’article explore les liens intertextuels entre l’une des nouvelles « fantastiques » les plus célèbres de la littérature italienne du XIXe siècle, L’alfier nero d’Arrigo Boito, et l’un des chefs d’œuvre russes dans le même genre littéraire : La dame de pique de Pouchkine. De nombreux indices montrent que Boito s’est inspiré de manière libre et originale de la nouvelle de Pouchkine. Il est probable qu’il ait voulu en même temps esquisser un portrait audacieux, à la fois admiratif et polémique, du grand écrivain russe.

Abstract

This essay explores the intertextual ties between one of the most famous 19th century Italian short stories in the “fantastic” genre, Arrigo Boito’s L’alfier nero, and one of the Russian masterpieces in the same genre: Pushkin’s The Queen of Spades. Numerous structural similarities suggest that Boito freely drew inspiration from Pushkin’s short story. The text also hints at the possibility that Boito wished to trace a bold, both praiseful and polemic portrait of the great Russian writer.

Riassunto

Il saggio studia i nessi intertestuali fra una delle novelle « fantastiche » più famose della letteratura italiana del XIX secolo, L’alfier nero di Arrigo Boito, e uno dei capolavori russi dello stesso genere letterario : La donna di picche di Puškin. Numerosi indizi ci inducono a pensare che Boito si sia ispirato in modo libero e originale alla novella di Puškin. Ma certi spunti sembrano anche suggerire che egli abbia voluto fare un ritratto, audace e polemico, del grande scrittore russo.

Index

Mots-clés : fantastique , intertextualité, jeu de pharaon, jeu d’échecs

Keywords : chess , faro’s game, intertextuality, the fantastic, uncanny

Palabras claves : genere fantastico , gioco degli scacchi, gioco del faraone, intertestualità, uncanny

Texte intégral

Il primo obiettivo di questo saggio è mostrare che la Donna di picche di Puškin è un importante ipotesto dell’Alfier nero di Boito. Certi meccanismi narrativi – tipici, fra l’altro, del racconto fantastico – certi motivi centrali nella novella del poeta russo ritornano in quella di Boito, anche se trasposti in altri tempi e in altri luoghi, in un’altra sfera di conflitti e di relazioni. In entrambe le novelle un gioco il cui nome dice il potere supremo (il faraone in un caso, gli scacchi nell’altro1) si presenta come proiezione simbolica di un conflitto e del suo svolgimento, fino al rovesciamento della vittoria di una delle due parti in sconfitta, e della sconfitta dell’altra parte in almeno parziale vittoria. Alla fine, in tutte due le novelle, entrambe le parti perdono, ma alcune delle sconfitte sono anche vendette e rivincite.

In secondo luogo vorrei qui mostrare che anche altri testi di Puškin, e probabilmente anche certi dati della sua biografia, possono essere stati fonte d’ispirazione per Boito, la cui novella può essere quindi globalmente considerata come un omaggio al grande poeta russo, o addirittura una riflessione poetica sulla sua vita e sul suo pensiero. Diventa quindi necessario prendere le mosse da una breve analisi di alcuni altri intrecci presenti nella sua opera.

Constatiamo, per cominciare, che nell’opera narrativa di Puškin, sia in prosa che in versi, è frequente il caso di due innamorati la cui unione è ostacolata da un genitore severo o da un rivale geloso, ma a volte anche da eventi bellici, da una catastrofe naturale o da potenze soprannaturali2. In alcuni di questi casi la determinazione degli amanti, la fortuna o altre forze che intervengono in loro favore3 permettono tuttavia al sogno d’amore di realizzarsi : e ci si rivela allora la componente fiabesca, ma anche illuminista, libertaria e libertina della cultura narrativa di Puškin, la cui malizia ci ricorda certi intrecci presenti nell’opera buffa e, prima ancora, nel teatro di Marivaux.

Così, per esempio, nella Signorina-contadina, scritta nel settembre del 1830, e inserita l’anno successivo nella raccolta delle Novelle del defunto Ivan Petrovič Belkin, siamo testimoni all’inizio della reciproca ostilità fra l’austero vedovo Ivan Petrovič Berestov (che vive molto frugalmente in campagna, e ha come unico figlio un bel giovanotto di snella corporatura, Aleksej) e il suo vicino Grigorij Ivanovič Mumromskij, che si è trasferito a sua volta in campagna con la bella figlia Liza, e sperpera i pochi redditi che gli sono rimasti facendosi costruire un bel giardino all’inglese. Liza è molto curiosa di conoscere il giovane Aleksej ma non sa come fare a causa del dissidio fra i due genitori. Avendo scoperto che Aleksej è attratto dalle belle popolane, si traveste da contadina, si reca al confine del possedimento paterno e fa in modo d’incontrarvi il giovane nobiluomo, al quale fa credere di essere la figlia del fabbro del villaggio e di chiamarsi Akulina. Aleksej è subito ammaliato dalla bella ragazza dal viso « abbronzato4 », caratteristico delle contadine, che si esprime in un vivacissimo vernacolo popolare e si mostra particolarmente sveglia e mordace, nonostante la sua umile condizione.

Ma di lì a poco una caduta da cavallo del padre di Liza permette a Berestov di offrirgli i primi aiuti, l’ostilità fra i due si smorza, Mumromskij invita a casa sua i Berestov, padre e figlio, e quest’ultimo, benché ormai innamorato della contadina, è molto curioso di fare la conoscenza della celebrata figlia di Mumromskij. Questa però, per divertirsi alle sue spalle e non essere riconosciuta, si è ricoperta le mani e tutto il viso, fino alle orecchie, di « bianco5 », cioè di belletto, porta dei ridicoli riccioloni falsi, si comporta con la massima affettazione e si esprime per tutta la serata soltanto in francese. Aleksej è disgustato dall’abbigliamento artificioso e dalle moine leziose di Liza, ma intanto i due genitori, che hanno fatto la pace, decidono di unire i loro due figli in matrimonio. Aleksej ha un tale orrore della promessa sposa, ed è talmente cresciuta in lui la passione per Akulina che invia a quest’ultima una dichiarazione d’amore e una proposta di matrimonio, e poi si reca a casa di Mumromskij, deciso a parlare a Liza e a spiegarle che ha dato il suo cuore a un’altra. Ma che sorpresa, e quanti gioiosi strilli, quando invece dell’affettata, riccioluta e incipriatissima Liza, si ritrova davanti l’adorata e « abbronzata » Akulina6 !

Indirettamente, la scoperta che sotto gli abiti e le maniere rozze di una contadina dalla pelle « scura » si può nascondere una vivace damigella che si beffa delle convenzioni sociali, permette a Puškin di difendere anche la propria causa personale di discendente di un arap, di un moro, di un negro africano. Bisnipote di Abram Petrovich Gannibal7, Puškin era paragonato dai compagni di scuola, durante l’adolescenza, a una scimmia, a causa della pelle scura e i labbroni da negro (fantasmati o reali che fossero), e per via del carattere ardente e impetuoso, imputato anch’esso alla sua oncia di sangue africano8. Ma in realtà – ci dice obliquamente la storia di Alekseij e di Liza – anche in un africano dalla pelle nera può celarsi (come nella rozza e abbronzata Akulina) un’anima delicata e sensibile, un’anima candida e pura di appassionato poeta.

In altre storie raccontate da Puškin lo scioglimento è meno felice. Per limitarci a quelle che presentano per noi un particolare interesse, comincerò con qualche rapida osservazione su Il negro di Pietro il Grande, in cui lo scrittore russo ci propone la versione romanzata di alcuni momenti della vita del suo antenato africano. Reduce della guerra di successione spagnola, dove si è ferito gravemente alla testa, per cui, invece della parrucca, porta in testa una fasciatura9, Ibrahìm si trattiene per un certo tempo a Parigi, dove s’innamora perdutamente di un’elegante contessa. Dopo un certo tempo, la bella dama, inizialmente inorridita, comincia a trovare « qualcosa di gradevole in quella testa ricciuta nereggiante in mezzo alle parrucche », e alla fine, travolta anche lei dalla passione, si getta nelle braccia del giovane. Poco dopo la gravidanza della donna pone ai due amanti un lacerante interrogativo : la contessa partorirà un bimbo bianco o nero ? E se sarà nero, come si potrà celare l’adulterio al marito ? La soluzione che viene trovata è di scambiarlo alla nascita con il figlio di una contadina, e così appunto vien fatto. Ibrahìm può così rimanere accanto alla donna amata, ma poco dopo giunge alla conclusione che la loro situazione è insostenibile, e che è meglio per lui ritornare in Russia, dove lo attende lo zar, paziente e comprensivo. Alla vigilia della partenza, che non ha osato annunciarle, il giovane africano scrive alla contessa una sconsolata lettera d’addio, in cui fra l’altro leggiamo :

Ricorda tutto quello che hai patito, tutte le offese all’amor proprio, tutti i tormenti della paura ; ricorda la terribile nascita di nostro figlio. Pensa : dovrei forse sottoporti ancora alle stesse ansie e agli stessi pericoli ? a che scopo sforzarti di unire il destino di una così tenera, così magnifica creatura allo sciagurato destino di un negro, essere pietoso, cui viene a stento concesso l’appellativo di uomo ? [...] Addio, Leonora [...] ; addio, sii felice – e pensa qualche volta al povero negro, al tuo fedele Ibrahìm10.

Nella Signorina contadina, l’abbronzatura della ragazza, e l’iniziale contrasto fra i genitori, non era stata un ostacolo all’amore ; qui invece la pelle nera di Ibrahìm costituisce una barriera invalicabile. In altri casi, poi, a impedire il coronamento del sogno d’amore vi è un’autorità paterna, severa o arbitraria, che in alcuni casi sembra perfino capace di scatenare contro i giovani innamorati le forze della natura. Si prenda a esempio lo straordinario poemetto del 1833, Il cavaliere di bronzo, interessante anche per il suo contesto politico. Al tempo della ribellione nobiliare polacca del 1830, Puškin aveva scritto contro i « calunniatori » della Russia, contro i sostenitori occidentali della ribellione11. Due anni dopo, nella terza parte de Gli avi, il poeta polacco Adam Mickiewicz, che aveva conosciuto Puškin, condannò invece il despotismo russo, e nella sezione intitolata Viaggio in Russia scrisse che Pietroburgo, costruita con i cadaveri di centomila contadini, non era stata fatta per gli uomini, ma per celebrare « le triomphe de la volonté impériale12 ». Mickiewicz ci mostra un esule, un « pélerin » polacco che ammira uno dei più bei palazzi della città, e poi, stretto il pugno, « frappe le marbre avec fureur, comme s’il jetait une menace à cette ville de marbre ». Egli immagina inoltre che il cavallo di Pietro, dopo avere traversato a nuoto la Neva e essersi lanciato in volo da una collina, sia rimasto sospeso nell’aria, trasformato dal gelo in cristallo. Di poco posteriore, Il cavaliere di bronzo è sicuramente una risposta a Mickiewicz, una difesa di Pietro il Grande, ma come ora vedremo propone una visione complessa e tormentata del despota russo e non dà interamente torto al poeta polacco.

Il proemio del poemetto (la cui traduzione italiana è dovuta alla penna raffinata di Tommaso Landolfi) è appunto un elogio di Pietro il Grande e di Pietroburgo, la città edificata dal grande autarca settecentesco. L’incipit mostra il sovrano sulla riva della Neva, immerso in una profonda meditazione, che il poeta condensa così :

Di qui minacceremo lo svedese.
Qui una città sarà fondata
Del superbo vicino in onta e danno.
Qui da natura fu per noi disposto
Di aprire una finestra sull’Europa,
Di porre un fermo piede sul mare.
E qui per onde a loro nuove
Verranno ospiti a noi tutti i vessilli,
e in piena libertà faremo festa
13.

Il seguito del proemio celebra la città, creazione di Pietro, il suo grave e armonioso aspetto, il granito delle sue rive, il diafano crepuscolo delle sue malinconiche notti, ma esprime anche l’auspicio, nell’explicit, che « il vinto elemento » faccia la pace con la città, che i flutti finnici scordino l’antica prigionia e l’odio, che le forze della natura non turbino « con rabbia vana / l’eterno sonno di Pietro », come fecero in un « giorno terribile », di cui la memoria è ancora recente14. A questo « giorno terribile » sono appunto dedicate le due successive parti del poema.

Protagonista è il giovane Eugenio, un modesto e solerte impiegato, che si lamenta della propria povertà, ma sogna di poter presto sposare la sua fidanzata, la dolce Parascia15. Il maltempo tuttavia lo inquieta e lo tiene sveglio. La ragazza vive con la madre su un’isoletta, e se i ponti saranno levati per la piena della Neva, egli rimarrà separato da lei per alcuni giorni. Finalmente riesce ad addormentarsi, ma durante la notte la bufera si scatena e i ponti sono divelti dall’uragano. L’indomani ritroviamo il giovane immoto, orrendamente pallido, a cavalcioni su un leone di marmo, sulla piazza di Pietro inondata dalle acque del fiume che ha straripato16 : dirige lo sguardo verso un punto lontano e gli sembra di vedere, in una vecchia casuccia, la sua Parascia.

Ma la vede davvero ? – prosegue Puškin – o dobbiamo supporre che gli appaia soltanto in sogno, e che in realtà « [...] tutta la nostra / Vita » sia « vano sogno, / Beffa del cielo ai danni della terra ? ». Cito questi ultimi versi perché ci ricordano la famosa asserzione del dualismo boitiano17, e perché anche il povero Eugenio (come il boitiano homunculus) rischierà poco dopo di essere calpestato dal cavaliere di bronzo che effigia il sovrano russo18.

Passano alcuni giorni e quando finalmente la Neva accenna a rientrare nell’alveo, Eugenio noleggia una barca, raggiunge l’isola dove si trovava la casa della sua fidanzata, ma non trovando che assi di legno sfasciate impazzisce. Varie altre settimane trascorrono, gli abitanti della città sono ritornati alle loro attività abituali, e già un poeta canta in versi immortali il disastro, ma il povero Eugenio continua a vagare per la città, tormentato da strani sogni. Finché un giorno si ritrova di nuovo sulla piazza di Pietro, davanti ai leoni, e di fronte alla statua equestre sopra la quale si erge « la bronzea testa » di Pietro il Grande19. Il giovane fissa « sguardi selvaggi / sopra l’effigie del dominatore di mezzo mondo », poi, « coi denti serrati, il pugno stretto », tremante d’odio, lo maledice, ma subito, nel suo delirio, si vede punito per la sua audacia :

[...] E d’improvviso in furia
Si buttò a correre. Gli parve
Che dello zar terribile,
Subitamente ardendo d’ira,
Si fosse il volto pian piano girato...
Ed egli per la piazza vuota
Fugge e si sente dietro
– quasi rombo di tuono –
un galoppo pesante e sonoro
per lo squassato lastrico
20.

Eugenio fugge, inseguito dal bronzeo cavaliere, che « con grave scalpito galoppa », e qualche tempo dopo il suo cadavere sarà ritrovato presso la soglia di una vecchia casuccia (quella in cui abitava Parascia) che l’inondazione ha trasportato su un’isola deserta21.

Veniamo ora alla Donna di picche22, celebre novella fantastica, che Boito poteva conoscere perché era stata tradotta e pubblicata nel 1852 in Francia da Mérimée23. La novella inscena il « conflitto » fra un giovane ufficiale del genio di origine tedesca di nome « German » e la nonna di un suo compagno d’armi che, sessant’anni prima, era stata ammirata nei salotti parigini come la « Vénus moscovite24 ». Una sera, giocando al faraone, la nobildonna aveva perso una somma esorbitante e il marito, che di solito si piegava a tutti i suoi capricci, aveva rifiutato di pagare. La donna si era allora rivolta al famoso conte di Saint-Germain25, avventuriero e alchimista, ritenuto da alcuni immortale, il quale le aveva rivelato una combinazione di tre carte che le aveva permesso di riguadagnare tutti i soldi perduti e pagare il debito. Da allora però la dama non aveva mai più utilizzato per sé il segreto svelatole da Saint-Germain, e una sola volta lo aveva rivelato a un certo Čaplickij, dopo che questi aveva perso 300.000 rubli al gioco, facendosi però promettere che avrebbe giocato una sola volta.

German è un giovane chiuso e ambizioso, dalle forti passioni e dall’immaginazione infuocata, in più è nell’anima un giocatore e può assistere per notti intere alle partite a carte dei compagni. Ma la sua fermezza di carattere, la sua soverchia parsimonia, il suo animo calcolatore lo trattengono dal giocare. Ritiene infatti che il suo patrimonio non gli permetta (come lui dice) « di sacrificare l’indispensabile per la speranza di acquistare il superfluo ». L’aneddoto delle tre carte, raccontatogli dall’amico Tomskij durante una serata presso un amico comune, Namurov, fa però su di lui una forte impressione, e anche se dice a se stesso che si tratta sicuramente di una leggenda, e che le proprie tre carte vincenti lui già le conosce – sono « l’economia, la moderazione e l’amore al lavoro » – egli rimugina nella sua testa che se potesse entrare nelle grazie della contessa di 86 anni, e « magari diventare suo amante26 », potrebbe farsi rivelare da lei il segreto e in tal modo arricchirsi. Questo pensiero diventa per lui una tale idea fissa che la rivolge nella sua mente in continuazione gironzolando per la città, e a un certo punto, venutosi a trovare davanti a una dimora di architettura antica, viene a sapere che quella è proprio la casa della vecchia contessa ***, la nonna dell’amico Tomskij. Il giorno dopo « una forza misteriosa » lo attira di nuovo davanti alla stessa casa, ma a decidere la sua sorte sono « un visino fresco e degli occhi neri » che spuntano da una finestra. Sono i tratti di Lizavéta Ivànovna, la giovane dama di compagnia della vecchia. Il suo aspetto colpisce German, il quale però, invece di innamorarsene, si serve dell’amore che riesce a destare nel cuore dell’ingenua ragazza come strumento per giungere alla vecchia, carpirne il segreto e soddisfare in questo modo la sua cupidigia. Introdottosi di notte di nascosto nel palazzo grazie alle istruzioni ottenute da Liza, egli si trova davanti a due porte adiacenti. Se aprirà quella di sinistra potrà salire nella camera della sua innamorata, se aprirà quella di destra potrà invece entrare in uno studiolo e ivi attendere il ritorno della contessa da una serata di gala27. Fra la giovinezza e l’amore da un lato, la vecchia « Vénus moscovite » e un fantasma di arricchimento dall’altro, German sceglie la vecchia e l’oro. Presentatosi poco dopo davanti alla contessa, German cerca di estorcerle senza successo il segreto delle tre carte, e di fronte al suo rifiuto la minaccia con una pistola che rimane però senza effetto perché lo spavento la uccide. Salito subito dopo nella camera di Liza, German le racconta sinceramente tutto ciò che è accaduto e la ragazza scopre inorridita chi sia il giovane di cui si è innamorata :

Quelle lettere appassionate, quelle infiammate richieste, quella temeraria, ostinata persecuzione – tutto ciò non era amore ! I denari, ecco di che cosa era affamata l’anima sua ! Non era lei che poteva saziare il suo desiderio e renderlo felice ! La povera protetta non era stata nient’altro che la cieca complice di un brigante, dell’uccisore della sua vecchia benefattrice28 !

Quanto a German, « non sentiva rimorsi al pensiero della vecchia morta. Una sola cosa lo faceva inorridire : l’irrevocabile perdita d’un segreto, dal quale si aspettava l’arricchimento ».

È a questo punto che la novella biforca verso la follia, a cui sembra aggiungersi anche un briciolo di soprannaturale. L’epigrafe che precede il racconto è una citazione dall’« Ultimo libro dei sogni » : « La donna di picche significa malevolenza segreta » ; e infatti, nel seguito della storia, assistiamo alla vendetta postuma della contessa, che « usa » questa carta come suo emblema e strumento. Pur avendo poca fede, German non riesce a « soffocare del tutto la voce della coscienza » che gli ripete : « tu sei l’assassino della vecchia ! ». Essendo inoltre superstizioso, e temendo che « la contessa morta » possa avere « un influsso nocivo sulla sua vita », si reca ai suoi funerali per ottenerne il perdono. Durante la cerimonia avviene però un incidente : saliti i gradini del catafalco, German si sporge in avanti e all’improvviso gli sembra « che la morta lo [guardi] con irrisione, strizzando un occhio ». Indietreggiando spaventato, egli allora inciampa e stramazza a terra, mentre nello stesso istante Lizabeta viene portata fuori dalla chiesa svenuta.

Tornato a casa, German si addormenta la sera profondamente, durante la notte però si risveglia e poco dopo « una donna vestita di bianco », in cui, dopo una esitazione iniziale, riconosce la contessa, entra e gli dichiara di essere venuta da lui contro la propria volontà : « Mi è stato comandato di esaudire la tua richiesta. Il tre, il sette e l’asso vinceranno in fila per te, ma a patto che tu non metta più di una carta al giorno, e che poi non giochi più per tutta la vita. Ti perdono la mia morte, a patto che tu sposi la mia pupilla Lizavéta Ivànovna ».

Da quel momento la mente di German è ottenebrata dalla visione delle tre carte vincenti, e ovunque intorno a sé vede dei tre, dei sette e degli assi, mentre sembra avere dimenticato o rimosso « la vecchia morta ». Tutti i suoi pensieri si fondono in uno solo : mettere a profitto il segreto che gli ha rivelato la contessa durante la sua apparizione notturna. Una società di ricchi giocatori, formatasi a Mosca, arriva nello stesso tempo a Pietroburgo, e tutta la gioventù si dà al gioco, « dimenticando i balli per le carte e preferendo le tentazioni del faraone alle seduzioni della galanteria29 ». German decide di sfruttare l’occasione che gli si presenta, e di giocare la sua combinazione. Il primo giorno punta 47000 rubli, e sceglie nel mazzo il tre, la stessa carta che viene estratta e collocata a sinistra del mazzo dal banco30, procurandogli un primo lauto guadagno. Il giorno seguente German punta di nuovo i 47000 rubli più tutto quello che ha guadagnato la vigilia, sceglie il sette nel mazzo e di nuovo vince, poiché anche la carta estratta e collocata dal banco a sinistra è un sette. Il terzo giorno, infine, la carta estratta e collocata dal banco a sinistra è proprio quella che gli aveva predetto la contessa durante la sua visita notturna, cioè un asso, mentre a destra esce una donna. Il banco gli rivolge però l’espressione rituale : « La vostra donna è ammazzata31 », e allora, chinando lo sguardo, German si accorge di avere scelto la donna di picche, e non l’asso, come avrebbe dovuto essere sua ovvia intenzione32, e di avere quindi una seconda volta ammazzato « la donna », come quando aveva estratto la pistola durante l’agguato notturno. Quella notte, non aveva scelto la porta di sinistra, che lo avrebbe condotto dalla bella giovinetta innamorata di lui, ma quella di destra, che lo portava dalla vecchia dama, e come conseguenza aveva ammazzato, sia pure involontariamente, la contessa e perso l’amore. In modo « simile » egli sceglie ora di nuovo – per una specie di sortilegio o per un ritorno del rimosso, per un’inconscia attrazione – la donna di picche, emblema della contessa, e non l’asso che lo arricchirebbe, pur obbligandolo nello stesso tempo a sposare Liza. Alla giovane innamorata « preferisce » di nuovo la vecchia, e questa scelta gli è fatale.

Quando German si accorge di avere giocato la donna di picche invece dell’asso, non crede ai propri occhi, non capisce come abbia potuto sbagliarsi. Nello stesso istante, poi, gli sembra che la carta gli faccia l’occhiolino e sorrida, e che essa somigli orribilmente alla vecchia33. Con quell’ammiccamento, essa sembra indicare che risponde al suo desiderio segreto ma che nel contempo si vendica, privandolo di tutti i suoi risparmi e dei suoi guadagni34.

A questo primo castigo se ne aggiunge subito dopo un secondo, che è la follia. Ricoverato all’ospedale di Òbuchov, German non parla più con nessuno, non risponde più a nessuna domanda, e borbotta a una velocità incredibile : « Tre, sette, asso ! Tre sette, donna !... », succube ormai per sempre della sua idea fissa.

Volgiamoci ora a Boito. Come ho accennato all’inizio, La donna di picche e L’alfier nero sono ambientate in luoghi e in tempi diversi, e in più differiscono sia nello stile e nei personaggi che nelle dinamiche spaziali e temporali delle vicende narrate. Ciò nonostante, le due novelle presentano anche numerose e rilevanti omologie di struttura, che vorrei ora ripercorrere e approfondire, partendo però dalle differenze che sussistono fra i due testi.

Constatiamo dunque prima di tutto che i fatti narrati nella Donna di picche, benché strettamente legati fra loro, si svolgono in luoghi diversi e si estendono su un lasso di tempo di almeno due settimane. Il gioco delle carte, inteso come gioco d’azzardo, è al centro della novella sin dalle due epigrafi e dalla sua prima riga, ma la partita di faraone che fisserà il destino del protagonista occupa solo il sesto capitolo, e consiste in realtà in tre giocate diverse che si svolgono nello stesso luogo in tre giorni consecutivi. L’alfier nero ci propone invece la più rigorosa unità di tempo, di luogo e d’azione, dal momento che tutta la storia si svolge dall’inizio alla fine nella sala di lettura di un rinomato albergo svizzero, ha inizio al crepuscolo, « entre chien et loup », e si conclude quasi 12 ore dopo, alle 5 del mattino, quando spunta l’alba35. Solo nell’ultima mezza pagina l’azione si sposta rapidamente a New York, venti giorni dopo, e poi, in poche righe, riassume icasticamente eventi posteriori di alcuni anni, che illustrano la solitudine, la miseria e la follia del protagonista, ridottosi a mimare i movimenti di alcuni pezzi degli scacchi per le vie di New York36. Questo epilogo ricalca in modo evidente la descrizione della pazzia di German nella « Conclusione » della novella di Puškin.

Dopo un invito iniziale al lettore a visualizzare nella propria immaginazione i due giocatori di scacchi, immobili uno di fronte all’altro nel cuore della notte, L’alfier nero comincia con il resoconto di una conversazione fra alcuni ospiti dell’albergo, conversazione che offre l’occasione di ricordare la rivolta dei « negri » a Morant Bay in Giamaica, permette a uno dei due protagonisti, il bianco Anderssen, di spiegare le ragioni della sua ostilità verso di loro, e vede infine uscire dall’ombra, quando un cameriere porta una grande lampada, il personaggio che sarà designato, nel seguito di tutta la novella, col soprannome di « oncle Tom ». Il conflitto razziale, che si iscrive in una più ampia contrapposizione del bianco e del nero, della luce e del buio37, attraversa tutta la novella e può essere probabilmente ricondotto all’opposizione del bene e del male in religioni dualiste come il mazdeismo o il manicheismo38, salvo che, in disaccordo con le versioni tradizionali di questo contrasto, proprio il nero sembra qui incarnare il principio del Bene, malgrado l’apparente superiore potenza del bianco. Nel corso della notte il nero, come contagiato dal bianco, sembra però perdere anche lui l’iniziale39 gentilezza e mitezza, e in più, in certi momenti, si ha l’impressione di assistere a una sorta di scambio o reciproca contaminazione dei ruoli40.

Dopo il breve prologo, l’intera novella (molto diversa in questo dalla Donna di picche) si presenta dunque come un resoconto dettagliato della lunghissima partita a scacchi che contrappone questi due giocatori antitetici. Da un lato appunto Anderssen, un americano dalla barba biondissima e tutto vestito di bianco, ma che porta un pince-nez affumicato per proteggersi dalla luce41 : l’uomo si è arricchito proprio giocando a scacchi, si attribuisce una quasi scontata superiorità intellettuale42, e le sue « gibbosità » frontali sembrano indizio di una mente razionale, calcolatrice e organizzatissima. Dall’altro lato Tom (paragonato con la sua razza a una « scimmia » o a un « jaguar ») : « un negro, un vero etiope, dalle labbra rigonfie [...] lanuto il crine come una testa d’ariete » e sulla fronte, pronunziatissime, « le bosses dell’astuzia ». Nativo però della regione di Morant-Bay in Giamaica : ancora fanciullo, è stato portato in Europa da uno speculatore insieme a un’altra trentina di piccoli negri. Per sua fortuna, tuttavia, è stato venduto a un vecchio Lord senza famiglia che, essendosi accorto dopo alcuni anni della sua intelligenza e onestà, lo ha fatto suo segretario, poi suo amico e infine, morendo, suo erede universale. Ora Tom è uno dei più ricchi possidenti del cantone di Ginevra, e fabbricante dei migliori sigari del paese43. La sua biografia presenta qualche analogia con quella del bisnonno « etiope » di Puškin, anche lui venduto in Europa come schiavo, ma anche lui fortunato perché, essendo stato messo al servizio di Pietro il Grande, aveva ricevuto una buona istruzione ed era stato capace di elevarsi a una rispettabile condizione sociale.

Come si è visto, la Donna di picche inscena i dilemmi di un giovane parsimonioso, avaro e calcolatore, ma che finisce per precipitare nella follia a causa delle sue forti passioni, della sua immaginazione infuocata e della sua fissazione sulla vecchia contessa e sulla donna di picche che la simboleggia44. In modo simile, il gioco di Anderssen è all’inizio simmetria, ordine e geometria, un « vasto e armonioso concepimento », come chi medita una scienza e considera ogni problema « colla calma del matematico ». Ma poi, poco per volta, « l’idea fissa » che tormenta la mente del suo rivale finisce per contagiare anche lui : mi riferisco all’alfiere nero che prima della partita si era spezzato quando Anderssen lo aveva riversato con gli altri pezzi sul tavolo, ma che era stato riparato dall’americano e ha ora la fronte rigata da « un filo sanguigno di cera lacca45 ». Tom è come ipnotizzato da questo alfiere nero, il suo sguardo concentrato su di esso sembra dimostrare la teoria dell’« influenza magnetica delle cose inanimate sull’uomo », ma a partire da un certo momento quest’influenza sembra estendersi anche ad Anderssen : « attirato dalla stessa elettricità » si mette anche lui a fissare l’alfiere nero, e finisce per dimenticare gli altri pezzi sulla scacchiera, ciò che gli sarà fatale. Abbagliato dalle « evoluzioni fantastiche » dell’alfiere, « continua ad inseguirlo, a rinserrarlo, a soffocarlo », e così alla fine riesce a catturarlo, ma ingannandosi sulle conseguenze del suo atto. Convinto che, una volta eliminato l’alfiere, Tom si darà per vinto, Anderssen si è dimenticato che nella penultima casa dei bianchi è rimasta una pedina nera. Tom la fa avanzare, la converte nell’alfiere « insanguinato » perduto un attimo prima e che quindi, in questo modo, appena « morto » resuscita, e poi, con il medesimo alfiere, dà scacco matto al re dei bianchi che nel suo arroccamento non può più muoversi46.

L’ipnotica fissazione di Anderssen sull’alfiere nero – molto simile a quello di German sulla donna di picche – causa dunque la sua sconfitta e la vittoria di Tom. Ma il delirio di Anderssen non si ferma lì. L’uomo afferra una pistola (proprio come German nella camera da letto della contessa), spara e colpisce alla testa Tom : e siccome un filo di sangue rosso gli scorre ora sul volto nero e gli cola giù per la guancia, Anderssen rivede nell’uomo disteso a terra l’alfiere nero che lo ha sconfitto. A sua volta poi Tom, morendo, ha l’impressione che la propria morte equivalga, sulla scacchiera del mondo, al sacrificio vincente dell’alfiere nero nella sua partita con Anderssen. Sin dall’inizio della serata egli aveva visto nel pezzo riparato con la cera lacca « un essere caro librato fra la vita e la morte », cioè il capo della rivolta di Morant-Bay, il fratello Gall-Ruk, di cui non si sa se sia riuscito a scappare o sia morto. Ma come l’alfiere ferito è morto e resuscitato, così ora la sua morte diventa il mezzo per resuscitare il fratello, ovvero la prova che è salvo47.

L’Alfier nero presenta dunque una dimensione geopolitica che manca nella Donna di picche di Puškin. E tuttavia proprio questo riferimento alla rivolta di una nazione oppressa ci può far pensare ad altri poemi e ad altri testi narrativi di Puškin, per esempio a quelli in cui il poeta russo ha messo in scena la rivolta cosacca capeggiata da Pugacev48, oppure la ribellione dei circassi contro la Russia (Il prigioniero del Caucaso), o infine lo stesso Cavaliere di bronzo, risposta di Puškin alla denuncia da parte di Mickiewicz della repressione russa contro i polacchi. Ricordiamo a questo proposito che Arrigo Boito, figlio di una polacca, era molto legato alla famiglia materna e si recò in Polonia almeno due volte. Nel « Figaro » del 31 marzo 1864 egli pubblicò la traduzione di due poesie di Mickiewicz, la romanza Maria e Una madre polacca49. Boito conosceva l’opera del poeta polacco e quasi sicuramente ne condivideva il patriottismo e le idee libertarie. Non sembra quindi illegittimo ipotizzare che alludendo nell’Alfier nero alla rivolta dei neri in Giamaica egli rimproveri implicitamente al poeta russo di avere tradito la causa di minoranze perseguitate con le quali si sarebbe dovuto mostrare anche lui solidale, in quanto discendente di Gannibal. È come se Boito dicesse obliquamente a Puškin : Tom e i ribelli giamaicani sono negri e di origine etiope come il tuo antenato. Se tu fossi ancora vivo, probabilmente li sosterresti. Ma se invece di ribellarsi contro gli inglesi si ribellassero contro lo zar, che cosa diresti ? Giustificheresti la repressione e lo spargimento di sangue, come hai fatto nel Prigioniero del Caucaso50, o in occasione della ribellione polacca ? Tradiresti i consanguinei del tuo antenato ? Ammiri la lotta per la libertà, come si potrebbe pensare leggendo certe tue pagine, o sostieni, come in altri tuoi versi, il sanguinario imperialismo russo ?

Non meno interessante è paragonare le due novelle rispetto alla questione del soprannaturale. La donna di picche è scritta in uno stile realistico, secco e prosaico, non privo di malizia e ironia, ma a un certo punto, dopo avere ripetutamente descritto e analizzato l’« idea fissa » che altera certe percezioni di German, narra eventi che devono essere oggettivamente classificati come soprannaturali. Non rientrano ancora in questa categoria né l’impressione da parte di German che la vecchia morta (e successivamente la donna di picche) gli sorrida maliziosamente dal suo catafalco, né l’errore che consiste nel scegliere la donna di picche invece dell’asso, né infine la sua meccanica, ossessiva ripetizione di certe parole del gioco del faraone dopo il suo ricovero in ospedale. Queste percezioni e questi strani comportamenti si possono facilmente spiegare col fatto che German è superstizioso, la sua « immaginazione infuocata » e la sua psiche alterata dal desiderio di arricchirsi e dallo sgomento per l’improvvisa morte della contessa. Il soprannaturale fa invece chiaramente irruzione nella novella quando German riceve la visita notturna della contessa. Il testo ci dice che il giovane ufficiale si è svegliato alle tre meno un quarto, ha guardato l’orologio ed era seduto sul letto quando ha sentito entrare in casa una persona, una « donna vestita di bianco » in cui ha riconosciuto subito dopo la contessa. L’evento deve essere considerato come soprannaturale dal momento che la contessa è morta e sepolta. Né eviteremo questa conclusione ipotizzando che la scena sia raccontata dal punto di vista di German (attraverso una focalizzazione interna non dichiarata), il quale credebbe di essersi svegliato ma in realtà avrebbe sognato tutta la scena51. Anche a fare questa ipotesi, non pienamente giustificata dal testo, rimane incontestabile il fatto che durante la sua visita notturna (che essa sia reale o solo sognata) la dama fornisce a German la combinazione vincente – una combinazione la cui probabilità statistica è di certo inferiore a uno su diecimila – per cui, se il giovane ufficiale la giocasse con coerenza, senza sbagliarsi, vincerebbe e si arricchirebbe davvero. L’ipotesi che una potenza soprannaturale sia intervenuta, prima fornendo a German la combinazione vincente, poi provocando o sfruttando la sua fatale fissazione sulla vecchia contessa e sul suo emblema, la donna di picche, per rovinare la sua psiche e le sue finanze, rimane dunque l’ipotesi oggettivamente più verosimile, nel quadro delle coordinate fornite dal testo.

Nell’Alfier nero non è invece necessario invocare un intervento soprannaturale per spiegare lo svolgimento dei fatti. Per render conto della vittoria di Tom e del suo successivo assassinio, basta insistere sul delirio irrazionale che afferra i due protagonisti, sulla loro forte propensione alle idee fisse : e infatti il narratore, per spiegare il loro comportamento, moltiplica le allusioni a magnetismo, spiritismo e ipnotismo – ipotesi scientifiche o pseudoscientifiche che erano in quegli anni diffuse, e in cui Boito crede o fa finta di credere per rendere più verosimile la trama della sua novella52. Ne possiamo dedurre che Boito segue l’ontologia implicita nella novella di Puškin finché quest’ultimo sviluppa il motivo psicologico dell’idea fissa, ma cessa di seguirlo quando il poeta russo si avventura sul terreno del soprannaturale. Proprio in questa rinuncia al soprannaturale, L’alfier nero sembra tuttavia basarsi su un altro modello presente in Puškin, di cui già abbiamo parlato e che anche nella sua scenografia potrebbe essere stato fonte d’ispirazione per Boito : mi riferisco al Cavaliere di bronzo, dove il movimento della testa dello zar e la corsa frenetica del cavallo sono esplicitamente attribuite dal poeta al delirio di Eugenio. Il poveraccio ha l’impressione di essere inseguito per tutta la notte dal cavaliere di bronzo, proprio come sulla scacchiera del’albergo svizzero l’alfiere segnato si dà a una fuga febbrile davanti ai pezzi di Anderssen, e proprio come più tardi lo stesso Anderssen, a sua volta impazzito, fugge per le vie di New York, come se lui stesso fosse un pezzo degli scacchi insidiato, e ogni nero che incontra fosse un alfiere vendicatore53. Anche riguardo alla questione del fantastico, il debito di Boito nei confronti di Puškin è dunque evidente, anche se lo scrittore e musicista italiano si è astenuto, almeno nell’Alfier nero54, da quello sconfinamento nel soprannaturale che lo scrittore russo ha praticato sia nella Donna di picche sia in vari altri poemi di ispirazione meravigliosa o fantastica.

In conclusione, possiamo dunque ripetere che l’Alfier nero di Boito è una libera e audace rivisitazione della Donna di picche, e probabilmente contiene anche dei riferimenti ad altri testi di Puškin. Nella novella del poeta russo, German non spara e nella sua pistola non ci sono pallottole, e tuttavia una prima volta causa la morte della vecchia dama per il solo fatto di puntare su di lei l’ordigno, e una seconda volta la « ammazza » di nuovo estraendo dal mazzo la donna di picche. Sembra tuttavia che la donna non si lasci domare, e che ogni volta resusciti : una prima volta il suo cadavere lo spaventa facendogli l’occhiolino durante il suo funerale ; una seconda volta lo turba andandolo a trovare durante la notte e fornendogli la chiave della ricchezza ; una terza volta, infine, lo induce a scegliere lei come carta vincente invece dell’asso, e di nuovo gli fa un segnale d’intesa ma di fatto lo rovina completamente.

A sua volta Anderssen uccide più di una volta Tom : rovesciando l’alfiere nero sul tavolo prima dell’inizio del gioco, catturando quello stesso pezzo nel corso della lunga partita notturna, e infine sparando con una pistola vera e ammazzando Tom. E tuttavia tutte e tre le volte il nero « resuscita », proprio come la contessa, e si vendica : la prima volta è lo stesso Anderssen a riparare il pezzo che si è rotto con la ceralacca ; la seconda volta non si accorge della pedina che è giunta all’altra estremità della scacchiera e che trasformata in alfiere gli dà scacco matto. E infine, la terza volta, Anderssen non riesce a sbarazzarsi di lui e a eliminarlo neanche uccidendolo per davvero, sia perché Tom è convinto che la sua morte sia un sacrificio che « salva » Gall-ruk, sia perché il susseguente delirio di Anderssen lo induce a vedere il proprio nemico in ogni nero che incontra per le vie di New-York.

In entrambe le novelle la vittima dispone quindi di un potere che le permette di « resuscitare » e di vendicarsi, un potere che Puškin rappresenta a un certo punto come soprannaturale, mentre Boito lo descrive piuttosto come un fenomeno psichico, come probabile conseguenza di un senso di colpa che produce in Anderssen allucinazioni del tipo che incontriamo nel Macbeth di Shakespeare.

Notes de bas de page numériques

1 Si noterà anche come i due titoli designino rispettivamente una carta usata nel gioco del faraone nella prima novella e un pezzo degli scacchi nell’altra ; in entrambi i casi, inoltre, i pezzi in questione sono icone di figure umane che a un certo punto sembrano animarsi e diventare personaggi nel pieno senso del termine.

2 Così avviene per esempio nella Tempesta di neve, dove all’opposizione dei genitori si aggiunge la « complicità » della bufera notturna, che impedisce ai due innamorati di incontrarsi. Per colmo di sventura in quella stessa notte la giovane protagonista sposa per errore – credendolo il suo promesso – uno sconosciuto che scompare subito dopo.

3 Così accade nella Figlia del capitano dove prima il feroce ribelle Pugačëv protegge inaspettamente il protagonista Grinëv che gli aveva offerto da bere e regalato un mantello durante una bufera, e poi l’imperatrice Caterina II in persona gli concede la grazia, accedendo alla domanda della sua fidanzata Mar’ja Ivanovna. In modo simile, nella Tempesta di neve, la protagonista s’innamora anni dopo di un giovane e finisce per scoprire che si tratta proprio dello sconosciuto con cui si era unita in matrimonio durante la tempesta di neve.

4 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, p. 754.

5 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, p. 760. Alla propria istitutrice inglese, Miss Jackson, cui ha rubato la cipria, Liza spiega che si vergognava a mostrarsi così « mora in presenza di sconosciuti » (p. 761).

6 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, p. 765.

7 Nato nel 1696, Abram Petrovich Gannibal morì ottantacinquenne nel 1781. Sulla base della fantasiosa biografia tedesca del genero di Gannibal, A. K. Rotkirkh, che fu probabilmente influenzato dal romanzo di Samuel Johnson The History of Rasselas, Prince of Abyssinia, tradotto in tedesco da Schiller nel 1785, si ritiene molto spesso ancor oggi che Gannibal fosse figlio di un principe etiope sconfitto dai turchi. In realtà era nato nel principato di Logon a sud del lago Ciad, che oggi fa parte del Camerun. Doveva essere figlio di un sovrano locale le cui terre furono conquistate, e i cui figli rapiti, da più potenti vicini. Questi lo inviarono a Istanbul, dove prima entrò nel serraglio del sultano, e poi fu spedito a Mosca e donato dal conte Golovin a Pietro il Grande nel 1704 (Vedi D. Gnammankou, Abraham Hanibal l’aïeul noir de Pouchkine, Paris, Présence Africaine, 1996, e N. K. Teletova, A. P. Ganniba : On the Occasion of the Three Hundredth Anniversary of the Birth of Alexander Pushkin’s Grea-Grandfather, in Under the Sky of my Africa. Alexander Pushkin and Blackness, edited by Catharine Theimer Nepomnyashchy, Nicole Svobodny, Ludmilla A. Trigos, Evanston Illinois, Northwestern University Press, 2006, pp. 46-47, 57).

8 Vedi Richard F. Gustafson, Rusland and Ludmila: Pushkin’s Anxiety of Blackness, in Under the Sky of my Africa, cit., pp. 99-121. Gustafson ci informa che i compagni di studi lo chiamavano « frantsuz (Frenchie) », intendendo con questo soprannome, derivato a quanto pare da una definizione di Voltaire, che egli fosse « a mixture of monkey and tiger ». E infatti lo stesso Puškin, in una poesia in francese del 1814 (Mon portrait) scritta quando era ancora al liceo, si autodefiniva « vrai singe par sa mine ». L’anno prima, nella sua prima poesia in russo che ci sia pervenuta, A Natalia, egli spiegava alla destinataria dei suoi versi che egli non era ne arap, ne turok ia [io non sono né un moro né un turco], ma un monaco [ia ... monakh]. In un poema narrativo dello stesso anno, Il monaco, il protagonista è più volte designato come chërnyi satana [Satana nero] o anche semplicemente come chernets [il nero] (pp. 100-102). Gli stessi motivi ritorneranno nel primo grande poema narrativo di Puškin, Ruslan e Ludmila, in cui la fedele Ludmila è rapita al marito, nel giorno del loro matrimonio, da un seduttore la cui « negritudine » è sottolineata dal nome, Chernomor.

9 Alexandr Puškin, Il negro di Pietro il Grande, in Id., Romanzi e racconti, 1990, introduzione di Serena Vitale, traduzione di Annalisa Alleva, Milano, Garzanti, « I grandi libri », 1999, p. 7.

10 Alexandr Puškin, Romanzi e racconti, 1990, introduzione di Serena Vitale, traduzione di Annalisa Alleva, Milano, Garzanti, « I grandi libri », 1999, p. 12.

11 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, p. 306 (nota introduttiva di Eridano Bazzarelli a Il cavaliere di Bronzo).

12 Cito qui dalla prima traduzione francese delle opere delle scrittore polacco, l’unica che potesse essere nota a Boito quando scriveva l’Alfiere nero : Adam Mickiewicz, Les aïeux III. Voyage en Russie, in Œuvres poétiques complètes de Adam Mickiewicz, traduit du polonais d’après l’édition posthume de 1858 par Christien Ostrowski, tome I, Paris, Firmin-Didot, 1859, pp. 314-315, 318, 322.

13 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, p. 313.

14 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, p. 315.

15 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, p. 317.

16 Nello stesso momento il sovrano esce sul balcone del proprio palazzo e contemplando l’orrenda sciagura ammette turbato che neppure gli zar possono avere ragione « dell’elemento di Dio » (Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, p. 319).

17 « Forse noi siam l’homunculus / D’un chimico demente, / Forse di fango e foco / Per ozïoso gioco / Un buio Iddio ci fé // E ci scagliò sull’umida / Gleba che c’incatena, / Poi dal suo ciel guatandoci / Rise alla pazza scena, / E un dì a distrar la noia / Della sua lunga gioia / ci schiaccerà col piè ». (Arrigo Boito, Opere letterarie, 1996, a cura di Angela Ida Villa, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 2001, pp. 53-54). Riporto qui anche la traduzione francese – a dire il vero molto debole – del brano che Boito poteva leggere in Œuvres choisies de A. S. Pouchkine poète national de la Russie traduites pour la première fois en français, par H. Dupont, tome 2, Saint-Petersbourg, Paris, 1847, p. 148 :  « Vit-il cela en rêve ? ou toute notre vie n’est qu’un vain songe, une raillerie du sort sur la terre ? ». Dei testi di Puškin studiati in questo saggio il volume francese contiene soltanto le traduzioni del Cavaliere di bronzo e del Prigioniero del Caucaso.

18 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, pp. 320, 325.

19 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, pp. 322-323, 325.

20 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, p. 326.

21 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, pp. 326-327.

22 Conservo in questo saggio il titolo dato alla novella da Leone Ginzburg, di cui uso qui la traduzione.

23 La dame de pique. Pikovaïa Dama in Nouvelles de Prosper Mérimée, Paris, Michel Lévy frères, 1852, pp. 223-275.

24 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, p. 776.

25 Ringrazio Walter Zidaric per avermi fatto notare che in russo il nome dell’ufficiale (che in tedesco si scriverebbe Hermann, e che così è anche trascritto da Mérimée nella sua traduzione) e quello del leggendario conte si scrivono e si pronunciano all’incirca nello stesso modo. La circostanza può far nascere nel lettore il sospetto che German sia un figlio naturale della contessa e di Saint-Germain, dei quali è detto che si conoscevano « intimamente » (Alexandr S. Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, p. 777). Durante il suo unico incontro con la contessa egli le domanda infatti se abbia « sorriso almeno una volta al pianto d’un figlio appena nato » (p. 793), e successivamente, durante il funerale della dama, si mostra tanto sconvolto da indurre un parente della defunta a chiedersi se il giovane sia « un figlio naturale » di lei (pp. 799-800). Meditando in un primo tempo, come vedremo, di diventare suo amante (p. 785), desiderando forse inconsciamente la vecchia e causandone poi la morte, German si sarebbe quindi reso doppiamente colpevole : di desiderio incestuoso e di matricidio.

26 Il progetto di diventare l’amante della contessa non è registrato nella traduzione di Mérimée, in cui Hermann esprime soltanto il desiderio di acquistare la fiducia della vecchia « facendole la corte », ma poi rinuncia all’idea perché teme di non avere abbastanza tempo : a causa della sua età la donna potrebbe morire prima che egli sia riuscito a carpirne il segreto (cfr. Nouvelles, cit., p. 240).

27 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, pp. 785, 773, 785, 786, 789-791.

28 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, p. 797.

29 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, pp. 797, 775, 798-802.

30 Il giocatore vince se ha scelto una carta identica a quella estratta a caso e collocata a sinistra del mazzo dal banco. Se invece la carta scelta dal giocatore è identica a quella che esce a destra, perde.

31 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, p. 804. L’espressione ha all’incirca lo stesso significato di quella che si usa negli scacchi, dove “scacco matto”, shāh māt vuol dire in arabo-persiano « il re è morto ». Mérimée (Nouvelles de Prosper Mérimée, Paris, Michel Lévy frères, 1852, p. 274) traduce invece : « Votre dame a perdu ».

32 Il testo è molto preciso a questo riguardo : a destra è caduta « una donna, a sinistra un asso » (Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, p. 804). German ha dunque effettivamente scelto una delle due carte poi estratte dal banco, ma ha scelto quella di destra, che è la carta perdente, e non quella di sinistra, che lo avrebbe definitivamente arricchito.

33 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, p. 805.

34 Non si può escludere che in tal modo la vecchia si vendichi non solo della propria morte ma anche del fatto che è stata « desiderata » da German per la ricchezza che può procurargli e non per se stessa. Benché ottantaseienne, la « venere moscovita » continuava infatti a essere vanitosa, come mostrano vari indizi nel testo, e non aveva rinunciato al suo potere di seduzione.

35 Arrigo Boito, Opere letterarie, a cura di Angela Ida Villa, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 2001 (1996), pp. 167, 178.

36 A rigor di termini, questi eventi sarebbero addirittura posteriori alla data di pubblicazione della novella, dal momento che la rivolta di Morant Bay, di cui in essa si parla, avvenne nel 1865 e la novella di Boito fu pubblicata nel 1867.

37 Rivelatrici, a questo riguardo, le parole di Anderssen nel prologo : « Dio pose odio fra la razza di Cam e quella di Iafet, [...] Dio separò il colore del giorno dal color della notte » (Arrigo Boito, Opere letterarie, a cura di Angela Ida Villa, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 2001 (1996), p. 168).

38 Vedi, a questo proposito, le osservazioni di Angela Ida Villa, in Arrigo Boito, Opere letterarie, a cura di Angela Ida Villa, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 2001 (1996), p. 487. Sul problema dell’Altro e sull’opposizione di Bene e Male, di luce e buio nella novella, vedi anche Stefano Lazzarin, L’altro, l’esotico e il perturbante nell’ « Alfier nero » (1867) di Arrigo Boito, in « Italianistica. Rivista di letteratura italiana », a. XXXVI, n. 1-2, gennaio-agosto 2007, pp. 83-96 (in particolare le ultime pagine).

39 « Nell’accento del negro v’era una gentilezza tenere e timida e una grande mestizia » (Arrigo Boito, Opere letterarie, a cura di Angela Ida Villa, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 2001 (1996), p. 170).

40 Su questo punto mi permetto di rimandare al mio saggio in francese Théologie blanche et théologie noire dans « Le fou noir » d’Arrigo Boito, in Échiquiers d’encre. Le jeu d’échecs et les lettres (XIXe-XXe siècles), sous la direction de Jacques Berchtold, Genève, Droz, 1998, pp. 145-162.

41 Quasi che la luce non cosituisse la sua essenza, ma proprio il principio che emana dal suo rivale e che lo minaccia.

42 Ad Anderssen sembra evidente, e il narratore sembra a sua volta sottoscrivere (ma il seguito della novella contraddirà almeno in parte questa asserzione), che « l’intelletto d’un negro, per educato che fosse, poteva fievolmente competere con quella d’un bianco e tanto meno con Giorgio Anderssen, col vincitore dei vincitori » (Arrigo Boito, Opere letterarie, a cura di Angela Ida Villa, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 2001 (1996), p. 172).

43 Arrigo Boito, Opere letterarie, a cura di Angela Ida Villa, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 2001 (1996), pp. 169, 167, 168.

44 Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, pp. 785, 786, 799

45 Arrigo Boito, Opere letterarie, a cura di Angela Ida Villa, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 2001 (1996), pp. 170, 172, 174-175.

46 Arrigo Boito, Opere letterarie, a cura di Angela Ida Villa, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 2001 (1996), pp. 174, 172, 177, 178.

47 « Tom agonizzando pronunciò queste parole : “Gall-ruk è salvo... Dio protegge i negri...” e morì » (Arrigo Boito, Opere letterarie, a cura di Angela Ida Villa, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 2001 (1996), p. 178).

48 Puškin ha raccontato questa rivolta nella Figlia del capitano e nella Storia della rivolta di Pugačëv.

49 Cfr. La pubblicistica nel periodo della Scapigliatura, a cura di Giuseppe Farinelli, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1984, pp. 414-415.

50 Vedi Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, pp. 214-215, dove per esempio leggiamo : « Te canterò, eroe, / O Kntljarevskij, flagello del Caucaso ! / [...] / La tua marcia, come contagio atroce, / Distruggeva, annientava le genti... »

51 Questa è la strategia usata da Puškin in una delle Novelle del defunto Ivan Petrovič Belkin, Il becchino : vi leggiamo che Adrijan fu svegliato nel cuor della notte da persone vedute ad annunciargli la morte della mercantessa Trjuchina e poi ci viene raccontata una serie di grottesche avventure che sono però confutate dalle parole che gli rivolge la moglie il giorno dopo : « L’ubriacatura di ieri non ti è ancora passata ? Che funerali ci sono stati ieri ? Hai banchettato tutto il giorno da quel tedesco, sei ritornato ubriaco, ti sei buttato sul letto e hai dormito finora, che le campane hanno già sonato la messa ! » (Alexandr Puškin, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990, pp. 726-729). Abbiamo così la prova, interna al testo, che Adrijan ha sognato sia la morte della mercantessa sia le successive vicende.

52 Arrigo Boito, Opere letterarie, a cura di Angela Ida Villa, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 2001 (1996), p. 177.

53 Arrigo Boito, Opere letterarie, a cura di Angela Ida Villa, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 2001 (1996), p. 179.

54 Sarebbe interessante porre la stessa domanda a proposito del Pugno chiuso e di altri testi di Boito, ma usciremmo dai limiti della presente ricerca.

Bibliographie

BOITO Arrigo, Opere letterarie, 1996, a cura di Angela Ida Villa, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 2001

Gnammankou Dieudonné, Abraham Hanibal l’aïeul noir de Pouchkine, Paris, Présence Africaine, 1996

Gustafson Richard F., Rusland and Ludmila : Pushkin’s Anxiety of Blackness, in Nepomnyashchy Catharine Theimer, Svobodny Nicole, Trigos Ludmilla A. (dir.), Under the Sky of my Africa, Alexander Pushkin and Blackness, Evanston Illinois, Northwestern University Press, 2006, pp. 99-121

LAZZARIN Stefano, L’altro, l’esotico e il perturbante nell’« Alfier nero » (1867) di Arrigo Boito, in « Italianistica. Rivista di letteratura italiana », a. XXXVI, n. 1-2, gennaio-agosto 2007, pp. 83-96

Mérimée Prosper, Nouvelles de Prosper Mérimée, Paris, Michel Lévy frères, 1852

Mickiewicz Adam, Œuvres poétiques complètes de Adam Mickiewicz, traduit du polonais d’après l’édition posthume de 1858 par Christien Ostrowski, Paris, Firmin-Didot, 1859

NEPPI Enzo, Théologie blanche et théologie noire dans « Le fou noir » d’Arrigo Boito, in Jacques Berchtold (dir.), Échiquiers d’encre. Le jeu d’échecs et les lettres (XIXe-XXe siècles), Genève, Droz, 1998, pp. 145-162

Puškin Alexandr, Œuvres choisies de A. S. Pouchkine poète national de la Russie traduites pour la première fois en français, par H. Dupont, tome 2, Saint-Petersbourg, Paris, 1847

Puškin Alexandr, Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1990N. 

Puškin Alexandr, Romanzi e racconti, 1990, introduzione di Serena Vitale, traduzione di Annalisa Alleva, Milano, Garzanti, « I grandi libri », 1999

Teletova Natalʹia Konstantinovna, A. P. Gannibal : On the Occasion of the Three Hundredth Anniversary of the Birth of Alexander Pushkin’s Grea-Grandfather, in Nepomnyashchy Catharine Theimer, Svobodny Nicole, Trigos Ludmilla A. (dir.), Under the Sky of my Africa, Alexander Pushkin and Blackness, Evanston Illinois, Northwestern University Press, 2006, pp. 46-58

Pour citer cet article

Enzo Neppi, « Quando il « colore » ci si mette di mezzo : dalla Donna di picche di Puškin all’Alfier nero di Arrigo Boito », paru dans Loxias-Colloques, 17. Arrigo Boito cent ans après, Quando il « colore » ci si mette di mezzo : dalla Donna di picche di Puškin all’Alfier nero di Arrigo Boito, mis en ligne le 31 mai 2020, URL : http://revel.unice.fr/symposia/actel/index.html?id=1627.

Auteurs

Enzo Neppi

Enseignant à l’université Grenoble Alpes, Enzo Neppi est un spécialiste de la littérature italienne du tournant des Lumières et travaille sur quelques auteurs du XXe siècle. Ses recherches portent sur l’intertextualité et sur la « pensée » des œuvres narratives. Parmi ses ouvrages : Le Babil et la caresse : Pensée du maternel chez Sartre ; Ugo Foscolo, Dell’origine e dell’ufficio della letteratura (édition et commentaire) ; Il dialogo dei tre massimi sistemi : Le « Ultime lettere di Jacopo Ortis » fra il « Werther » e la « Nuova Eloisa ». Il prépare actuellement un ouvrage sur Il romanzo di Ferrara de Giorgio Bassani et son contexte européen.